Andrea Gabba, triatleta e coach internazionale stimato e apprezzato, ci racconta come sta vivendo, con grande professionalità e passione, il suo triathlon, tra Turchia e Torino.
Perché Andrea Gabba è il coach della nazionale turca?
«All’inizio del quadriennio olimpico che porta ai giochi di Rio il mio percorso di crescita personale e professionale in Italia ha subito uno stop dovuto a molti fattori. Quello che però non è mai venuto meno è il mio entusiasmo e la mia voglia di rimanere nel mondo del triathlon internazionale che per tanto tempo, grazie anche ai risultati di Nadia (Cortassa, sua moglie, ndr) e all’appoggio della Federazione Italiana Triathlon, mi ha regalato molte soddisfazioni. Dentro di me cullavo un nuovo sogno olimpico e quando ho saputo che in Turchia cercavano un coach per avviare un processo di crescita ho inviato ai dirigenti turchi il mio curriculum. Pochi giorni dopo ho preso un aereo per Smirne e mi son seduto al tavolo con il Presidente turco, mi sono “giocato le mie carte” per diventare il loro coach. I miei risultati e la buona fama che mi sono creato in passato presso il mondo ITU-ETU ha fatto si che da febbraio 2012 io sia il riferimento tecnico per la federazione turca.»
Qual è la situazione che hai trovato all’inizio del tuo percorso in Turchia dal punto di vista tecnico?
«Quando mi sono presentato al primo raduno (in occasione del mio colloquio e della firma del contratto a febbraio 2012) la situazione tecnica non era di certo idilliaca. Il gruppo Elite era rappresentato da un esiguo numero di ragazzi non più giovanissimi, con evidenti limiti tecnici e con capacità prestative da buoni age group europei, ma nulla più. Pochi giovani (18, 20 anni) con un discreto potenziale e un esiguo numero di ragazzi (14, 18 anni) completamente da costruire sia tecnicamente, sia mentalmente. Per rendere un’idea, il livello della squadra era di gran lunga inferiore a quello di un buon team italiano. Quello che mancava inoltre era la cura dei particolari e la mancanza di professionalità: orari mai rispettati, alimentazione completamente errata, riposo spesso inesistente ecc. Tutta questa situazione era figlia delle scarse conoscenze tecniche degli allenatori e di una guerra aperta tra alcune squadre e tra le squadre stesse e la federazione.»
Che tipo di rapporto hai instaurato con la Federazione Turca?
«La federazione non aveva una precisa visione di quello che c’era da fare, ma era chiaro il punto di arrivo: le Olimpiadi. In pratica vedevamo un miraggio. Devo però dire che la fiducia che mi hanno trasmesso è stata senza limiti e nonostante le difficoltà nel far cambiare una mentalità radicata, ho sempre pensato che le cose sarebbero cambiate. Quello che ho apprezzato da subito è stato il rapporto umano che si è creato con i vertici federali. Un semplice feeling che mi ha fatto stare bene. Non posso nascondere che certe differenze culturali, date da situazioni religiose, sociali e geografiche, siano evidenti, però giorno per giorno mi sento sempre più parte integrante del team.»
Hai la possibilità di utilizzare delle risorse importanti per il progetto olimpico?
«Come tutte le federazioni che non portano atleti alle Olimpiadi, il contributo del comitato olimpico è stato negli anni esiguo. Le principali risorse si trovano nelle casse di quei comuni (città) che investono sul triathlon proponendo gare di alto livello, come ad esempio la World Cup di Alanya e le Continental Cup di Antalya e Istanbul. Il primo grande investimento fatto dalla federazione è stato il mio “acquisto” e parallelamente il contributo economico e in termini di materiale (bici, mute, ruote, ecc.) che viene dato ai club giovanili. Il secondo step (e le conseguenti aperture delle casse de comitato olimpico) è stata la realizzazione di un progetto parallelo di crescita basato su due fattori: da un lato un sempre maggior investimento sui club alla ricerca di giovani provenienti dal nuoto con obiettivo triathlon olimpico Tokio 2020 e dall’altro lato la naturalizzazione di atleti dall’alto potenziale alla ricerca della qualifica olimpica per Rio 2016.»
Parlaci del tuo ambientamento.
«Io mi sono trovato bene fin da subito. La federazione mi segue, i ragazzi della squadra e ultimamente anche molti age group vedono in me un riferimento. Giorno dopo giorno sto entrando anche nel tessuto sociale della Turchia e questo aspetto lo trovo molto utile alla mia crescita extrasportiva, un vero valore aggiunto a quanto sto vivendo come coach. Conoscere realtà come quelle del lavoro, della condizione femminile, della gestione della politica in Turchia mi ha fatto riflettere molto sulla realtà che in Italia e nel mondo “occidentale” viviamo ogni giorno. La Turchia è un paese che mi piace molto, ma più passa il tempo e più mi rendo conto che il rapporto è contemporaneamente di amore e odio proprio per le contraddizioni che vi si trovano. Una cosa che però vivo dal primo giorno è l’orgoglio di essere una di quelle persone che (nel piccolo) danno il contributo all’affermazione nel mondo della Turchia.»
Che tipo di impostazione hai dato al tuo lavoro?
«Come è facile intuire, dopo aver capito il livello e la realtà che ho incontrato ho dovuto rivoluzionare molte cose, anche se i passaggi sono stati graduali, non facili e per qualcuno anche dolorosi. Ma dopo due anni posso dire di essere soddisfatto di quello che sto facendo. Il primo passo è stato quello di creare un criterio oggettivo di selezione per la nazionale. Seguendo l’esempio francese e tedesco, ho inserito un test cronometrico sugli 800 m di nuoto e 5.000 m di corsa. Chi nella somma dei tempi superava un certo limite veniva escluso dalla nazionale. Questo criterio mi ha permesso di raggiungere gli obiettivi che avevo in testa ossia: escludere gli atleti con nessuna possibilità a livello internazionale, ringiovanire il team (lavoro con tutti atleti under 23), stimolare la crescita del gruppo attraverso il confronto diretto. Parallelamente, ho lavorato molto sulla formazione dei tecnici attraverso una serie di seminari tenuti nelle principali città dove si pratica il triathlon. Fatti questi primi due step, abbiamo lavorato alla ricerca di nuovi talenti, sia a livello internazionale cercando atleti con caratteristiche in grado di ricevere un passaporto turco e nello stesso tempo capaci di centrare la qualificazione olimpica per Rio, sia a livello nazionale cercando ragazzi provenienti dal nuoto che garantiscono la base di lavoro per il progetto Tokio 2020. Oggi grazie al lavoro con la federazione siamo riusciti ad appianare molte spigolature tra team e federazione, abbiamo creato uno staff tecnico di buon livello inserendo figure importanti come il preparatore atletico e il nutrizionista. Lavoriamo con validi ragazzi in grado di nuotare anche molto forte (nell’ultimo test il nostro miglior junior ha nuotato gli 800 metri in 8’45”) e siamo pronti per iniziare la stagione pre olimpica con 3 validi ragazzi: il giovane (21 anni) Jonas Schomburg (che il 1° marzo ha centrato in Sudafrica il primo storico successo turco in una gara ITU, ndr), Aurelien Lescure e la nostra Gaia Peron. Sono inoltre molto contento di aver qualificato due giovani ragazze che lavorano con me da due anni ai Giochi Europei di Baku. Saremo presenti in Azerbaigian con 3 atleti (Jonas e le due ragazze) di soli 21 (Jonas e una ragazza) e 23 anni.»
Ci hai già accennato della scelta di naturalizzare Gaia, Jonas e Aurelien: a chi è venuta l’idea e come ha reagito l’ambiente?
«Quando si fanno queste “operazioni”” il primo passo viene sempre fatto dai comitati olimpici, per non dire dal governo del paese, poiché la possibilità di dare un passaporto ad una persona straniera deve seguire iter legali concessi dalla costituzione della nazione. Il comitato olimpico turco ricerca, attraverso accordi con i comitati olimpici stranieri e le federazioni di origine, atleti in grado di garantire lo sviluppo dello sport in Turchia. Il passaggio in termini pratici segue queste linee: atleti con determinate caratteristiche vengono naturalizzati, essi diventano il faro del movimento e un modello per i giovani turchi attirando soldi e nuovi adepti verso lo sport (il triathlon nel nostro caso). I soldi vengono distribuiti e investiti sull’attività di base e sulla collettività, i giovani che si avvicinano allo sport vengono seguiti e supportati per poter in breve tempo lavorare solamente più su atleti originari della Turchia senza ricorrere alla forza di atleti naturalizzati. Naturalmente di fronte a situazioni così complesse e di non facile comprensione, si trovano anche ostacoli a livello di comprensione, ma sono certo che nel lungo periodo tutti (in Turchia) capiranno l’importanza di quanto si stia facendo.»
Come sei arrivato alla scelta di Gaia?
«Da tempo ero alla ricerca di una ragazza da portare in Turchia e non nascondo che da lontano seguivo Gaia perché l’ho sempre ritenuta una valida atleta, con caratteristiche in grado di valorizzare il nostro progetto (possibilità di raggiungere la qualifica olimpica, volontà di mettersi in gioco, buon appeal verso i media, ottima visibilità data anche dalle sue caratteristiche tecniche, essendo sempre una delle prime ad uscire dall’acqua, margini di miglioramento ampi, ecc.). Non mi sono mai avvicinato a lei, sia per rispetto dell’atleta, sia della federazione italiana. Come a volte succede nella vita, nulla accade per caso e in occasione della sua miglior gara in campo internazionale (7° posto alla WC di Tiszaujvaros) ci siamo ritrovati a parlare della sua attività chiudendo la chiacchierata con una battuta un po’ buttata in aria: “se vuoi venire con noi la porta è aperta“. Da lì, le cose si sono evolute e pochi mesi fa abbiamo concluso un accordo. Colgo l’occasione per ringraziare Gaia per la scelta fatta (lasciando non solo l’Italia, ma anche il gruppo sportivo Fiamme Oro), la sua famiglia per l’appoggio dato, la Federazione Italiana Triathlon che ha agevolato il passaggio e le Fiamme Oro.»
E ora si parte, comincia la WTS 2015: cosa ti aspetti da Abu Dhabi e dall’intera stagione pre olimpica?
«Sabato qui ad Abu Dhabi (da dove scrivo ora) sarà una vera battaglia, ma… tutta da scoprire! Le carte si possono rimescolare facilmente, visto che la condizioni degli atleti a marzo potrebbero essere lontane dagli standard che siamo abituati a vedere in estate. Quante domande: “come stanno gli atleti Europei? E chi ha già fatto la stagione in Australia? Chi sarà al 100% e chi è venuto qui solo per esserci? Come si evolverà tatticamente la gara, tutti in attesa o si attacca?”. Sono davvero curioso di scoprire le risposte. Innanzitutto i miei ragazzi dovranno correre senza pressione. Abbiamo programmato una stagione e i risultati di sabato 7 marzo e delle gare in generale, non determineranno cambi di rotta. Mi auguro per le caratteristiche di Gaia e Jonas che in acqua si selezioni un piccolo gruppo capace di arrivare fino alla T2 con qualche decina di secondi di vantaggio sugli inseguitori. Poi la corsa sarà una sofferenza, ma anche in questa frazione entrambi i ragazzi sono migliorati.»
Che prospettive ha la Turchia per Rio 2016
«Con Gaia e Aurelien si lavora per la qualifica e le possibilità sono davvero buone, anche alla luce delle poche gare fatte nel 2014 e quindi avendo la possibilità di aggiungere molti punti nelle prime gare del 2015. Per Jonas il discorso è diverso, ha solo 21 anni e la qualifica è più dura: con lui si può ragionare anche in termini futuri, ma il sogno è di essere a Rio a soli 23 anni e noi ci crediamo perché pochi ragazzi vivono il triathlon come lui, con tanta abnegazione e voglia di emergere.»
Che tipo di futuro vedi per il triathlon turco?
«Come avrete capito, non posso che essere ottimista, siamo davanti a due momenti importantissimi. Ad ottobre 2015 si correrà il primo Gloria Ironman 70.3 Turkey (Ironman ufficiale, con il pallino per capirci) e speriamo ad agosto 2016 di essere al via dei Giochi Olimpici. In soli 10 mesi ci troveremo di fronte a due eventi mediatici (uno solo per il triathlon, l’altro di portata mondiale) importantissimi. Se sapremo sfruttare l’occasione, penso che il triathlon possa ricevere una bella accelerazione e divenire lo sport di endurance principale in Turchia, secondo solo alla corsa e forse al nuoto. Il mio obiettivo reale sarebbe di portare la Turchia nel lungo periodo ad essere una nazione in grado di collocarsi nella fascia dei team subito alle spalle delle squadre leader del movimento Europeo (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Italia). Se penso che oggi vedo questo obiettivo realizzabile e due anni fa la richiesta dell’ambiente era quella di vedere atleti in grado di non essere doppiati nelle gare europee, sono abbastanza orgoglioso di quanto fatto in 24 mesi.»
Come gestisci il tuo lavoro e la tua famiglia?
«Per fortuna Nadia è comprensiva con me e mi supporta e sopporta… I miei due bambini quando parto sono un po’ dispiaciuti, ma allo stesso tempo contenti perché sanno che non torno mai a casa a mani vuote… Detto ciò devo dire che la base del mio lavoro e il mio ufficio restano a Torino in quanto nella stagione estiva gli spostamenti per le gare sono più agevoli da casa che dalla Turchia. In inverno mi dedico ai raduni, quindi sto via meno, ma per più tempo; nella stagione di gare vado via più spesso, ma generalmente per pochi giorni.»
Sei sempre molto attivo anche in Italia con il “tuo” Torino Triathlon.
«Si lavoro quotidianamente con e per il Torino Triathlon. Quando sono a casa sono attivo sul campo, quando sono via coordino il tutto da lontano. La gestione della squadra è davvero dura avendo oltre 200 atleti attivi, tra cui più di 60 giovani. In più organizziamo gare (tra cui i Campionati Italian di duathlon il prossimo 22 marzo), stage, convegni, un lavoro a 360°. Tutto questo non sarebbe possibile senza il gran lavoro dei nostri presidenti White e Bertrandi, del lavoro del consiglio direttivo, dei 10 tecnici societari (dal 2015 con il fiore all’occhiello di Nadia) e della passione degli atleti, il vero motore del team. Una cosa di cui vado fiero è l’orgoglio di indossare in giro per il mondo la divisa rossa con la bandiera raffigurante la stella e la luna della Turchia, ma allo stesso tempo di sentirmi intimamente legato al Torino triathlon… e al Toro! Ma questa è un altra storia e anche un altro sport!»