Alessandro Tomaiuolo a Francoforte è stato capace di una prestazione eccezionale, andando per la prima volta sotto le 9 ore. Il suo racconto è come sempre toccante e profondo, dedicato al caro amico Enrico.

Non è questo il racconto che avevo in mente.

Il primo Ironman sotto le 9 ore, ecco, questo doveva essere il tema.

Qualche pensiero ispirato all’obiettivo più ambizioso, delle argomentazioni in punta di fioretto sul metodo, un po’ di filosofia spiccia su concetti come determinazione, fatica e via andare.

Avevo messo in ordine le idee, organizzato la sintassi dei pensieri. La gara quasi perfetta era lì, bastava lasciar scorrere la penna, gestire l’enfasi senza esagerare con i toni. Un po’ di ironia, il gioco era fatto. Stava venendo fuori un bel pezzo, davvero.

Poi, come spesso accade nella vita, a sparigliare le carte è arrivata la morte, abile nel trasformare ogni istante in un vortice di vuoto, pieno di qualcosa che prima c’era e poi all’improvviso non c’è più.

La morte è un invenzione democratica: non si nega a nessuno.

La morte è laida, sempre, è la negazione stessa del nostro esistere. Una eventualità che l’istinto umano non riesce a prendere in considerazione quando si tratta di fare programmi. Ma che quando arriva è sempre troppo tardi per consentirci di riconsiderare le prospettive passate.

Volevo ragionare sul “Metodo Conte”, tema di attualità contingente alla trasferta germanica. Il parallelismo appariva tanto banale quanto palese: il contismo come filosofia di gioco è un metodo basato sulla dedizione del singolo all’obiettivo finale, sull’impegno massimo in allenamento, sulla predisposizione al sacrificio ed alla concentrazione assoluta. In definitiva, sulla disponibilità a dare tutto.

Poche le differenze con l’approccio di Francoforte.

L’impatto dell’ex CT è devastante nel trasformare squadre mediocri in macchine da guerra, capaci di sconfiggere avversari più forti sulla carta. Era successo a Torino, stava per accadere con una delle Nazionali più scarse di sempre.

Disciplina, metodicità e totale dedizione diventano elementi in grado di spostare i limiti al di sopra della soglia di talento a disposizione. Ancora analogie.

In un gioco di squadra il valore aggiunto è il gruppo, in uno sport individuale conta la “centratura” (Coach DIAMANTINI), ovvero la capacità di lavorare con la massima concentrazione sull’obiettivo senza trascurare il minimo dettaglio.

Il successo diventa la naturale conseguenza di un metodo che lo prevede come unico risultato possibile.

La vittoria va perseguita sempre, fino alla fine, persino nelle partita che se pareggiata avrebbe aperto porte più accessibili.

Quella lunga fatica durata 8 ore, 56 minuti e rotti lungo le rive del Meno, è stato il contenuto di un libro che avevo divorato un centinaio di volte nella mia testa. Il finale sempre unico, ogni volta uguale a se stesso. Il metodo aveva un senso, l’articolo pronto.

Dovevamo festeggiare tutti insieme, ce lo eravamo promessi. Avrei offerto da bere, avremmo riso e cazzeggiato come al solito sul fatto che te la saresti potuta giocare con una forma ottimale e senza infortuni.

Invece la scontata verità, pescata come il più banale dei messaggi nei biscotti: non esiste solo la vittoria.

Già, così. Anche la più efficace delle teorie mostra un lato oscuro. Le lacrime di Buffon, le parole di Conte lo testimoniano: «Quando perdo sto male fisicamente». Gente che ha visto sfumare finali di Champions, mica i quarti di un Europeo.

Conte rimane un magistrale profeta capace di trasformare l’acqua in vino; ma proprio perché assoluto, il suo metodo instilla la convinzione unica e univoca che possa esistere solo il successo. E la sconfitta è un opzione che non può essere prevista, per il semplice fatto che non ci si allena per affrontarla.

Difficile un rischio analogo nell’Ironman: le variabili in gioco sono tante e tali che l’imprevisto è la regola, la possibilità di mancare l’obiettivo una certezza più reale che scaramantica.

Eppure basta un attimo.

Facile ritrovarsi ovattati nella scia di quello stato di esperienza ottimale chiamato “flow”, in cui tutto va esattamente come deve andare.

Facile come il rischio di perdere la percezione della realtà.

Non allenarsi alla sconfitta è una sconfitta che non ci si può permettere.

Vivere è l’unica cosa che conta.

Per farlo con dignità e coscienza occorre prevedere anche il fallimento come parte della vita al pari del dolore, di una foratura in gara e di tutte quelle normali bruttezze che vorremmo cancellare dalle nostre esperienze umane ma che ci inseguono tanto più velocemente quanto cerchiamo di evitarle.

Grazie Vecio, perché alla fine una lezione sei riuscito a darmela eccome: mai dimenticare l’amaro sapore della sconfitta anche dopo aver sfiorato quello della vittoria.

Come promesso, la prossima volta offro io.

A.

 


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