Rudy Garcia Tolson è un icona mondiale dello sport paralimpico. Aveva deciso di ritirarsi, ma il rinvio di Tokyo gli ha fatto cambiare idea. Nuoto, ma anche triathlon. Forza di carattere e sfide continue. Come a 9 anni e come quella volta alle Hawaii…
Ottobre 2009, Ironman World Championship: Rudy sta percorrendo i 180K sulla sua bicicletta, che riesce a guidare grazie a protesi con il ginocchio mobile. In T2, però, la cruda verità: ha superato il tempo limite di 8 minuti ed è costretto a fermarsi. Complice anche un’infezione contratta pochi giorni prima.
La rabbia passa, ma l’orgoglio no, quello non si placa. Così poco più di un mese dopo ci riprova, a Tempe, in Arizona, dove quel traguardo lo taglia sentendosi urlare la frase più bella: “Rudy, you are an Ironman!“.
Tolson ha imparato a prendere la vita di petto, quasi a dire al destino: “Decido io, non tu”. Nato – nel settembre 1988 a Bloomington, in California – con la peggiore forma della sindrome di Pterygium, nei suoi primi cinque anni aveva già affrontato quindici operazioni: le labbra, il palato, le mani con le dita unite come ragnatela, il naso.
A nove anni la decisione: avrebbe chiuso con ospedali e carrozzine. Ai medici disse: “Tagliate le gambe, voglio uscire a giocare con mio fratello”. Iniziò a nuotare nella squadra della Ymca, la gioventù cristiana. Finiva ultimo, ma lo applaudivano. Odiava questo: “Non ho mai accettato quegli applausi, era solo pietà” ha raccontato a Claudio Arrigoni sulle pagine di Corriere.it.
Baseball, football, basket, ma anche skateboard e a 10 anni il primo triathlon. Fece così parlare di sé che Robin Williams, fra un film e l’altro, cominciò a gareggiare con lui. Insieme hanno costituito il Team Braveheart. Ancora adolescente, vince la sua prima medaglia d’oro a una Paralimpiade, ai Giochi di Atene e Pechino è ancora l’oro nei 200 misti, a Londra e Rio argento: “Dopo Rio non pensavo di andare avanti. Ero stremato, mi mancavano motivazioni. A New York (dove vive ora, ndr) sono uscito dalla mia comfort zone. Mi è servito. Ho imparato con il lavoro”.
Ora Tokyo nel 2021: “Non sappiamo cosa accadrà, ma va bene – racconta sempre ad Arrigoni -. Mi rendo conto che non vi è alcuna garanzia che ci saranno i Giochi. Questo è fuori dal mio controllo, quindi non ci penso troppo. Si svolgano i Giochi o ci sia un ragazzo di 13 o 14 anni che mi supera e batte, niente è mai scontato”.
Rudy è diventato un esempio per tutti. People, fra i magazine più famosi del mondo, quando aveva 18 anni lo inserì fra i venti giovani che avrebbero cambiato il mondo. Collabora con la Challenged Athletes Foundation, che dona protesi a chi non può averne o non è coperto da assicurazione. Fa parte del Team Ossur, atleti che testano le protesi per una delle maggiori aziende del mondo, nel quale ci sono o ci sono stati straordinari atleti paralimpici, tipo Oscar Pistorius, Marlon Shirley, Markus Rehm e, fra gli azzurri, Giusy Versace, Bebe Vio e Stefano Lippi.
E il triathlon? Continua a praticarlo: dopo aver nuotato, si infila prima le protesi con il ginocchio mobile per pedalare e quelle con le lame per correre, e si diverte. Alla fine, conoscete un Ironman più Ironman di lui?